MONASTERO DI CAMALDOLI

Cappella dello Spirito Santo

 

22 giugno 2024  |  1 settembre 2024

 

 

L U M I N O S A 

 

 

 a cura di Paola Feraiorni e Giovanni Gardini

con un testo di Marco Vannini

 

 

 

Inaugura sabato 22 giugno 2024 alle ore 18.00 presso il Monastero di Camaldoli (Ar) Luminosa, una personale di Ettore Frani a cura di Paola Feraiorni, sposa e collaboratrice dell’artista, e Giovanni Gardini, direttore della Raccolta Lercaro di Bologna e del Museo Diocesano di Faenza. La mostra si inserisce all’interno di un prezioso dialogo tra il Monastero di Camaldoli e gli artisti, a cura di Giovanni Gardini, che negli ultimi dieci anni ha visto esporre importanti nomi del panorama nazionale e internazionale.

 

Il progetto, concepito site-specific da Ettore Frani e Paola Feraiorni per la Cappella dello Spirito Santo, intende proporre prima che una mostra un segno tangibile e personale di un’esperienza condotta negli anni, tradotta poi dall’artista in un gesto, quello pittorico, che si pone innanzitutto come preghiera, come un modo di interpretare e dare senso al mondo e al suo mistero, partendo da assunti che fanno eco ad un’autentica esperienza religiosa. Un dialogo, quello della pittura, muto eppure eloquente - sottolineano Frani e Feraiorni - tra il nostro, mai estinguibile, desiderio d’assoluto e l’indicibile, eppur percepibile, trascendenza del divino. Questo progetto, all’interno della poetica dell’artista, assume una valenza molto particolare in quanto crea un focus su uno dei soggetti a lui molto cari, la luminosa - uno dei nuclei fondanti la sua ricerca pittorica degli ultimi anni - nel quale approfondisce, attraverso la reiterazione della figura femminile, il dialogo che intercorre tra l’anima e la Luce, dove quest’ultima è intesa come una grande metafora dell’Origine. In una cornice tematica d'ascendenza dichiaratamente neoplatonica, questo dialogo a due - tra l’umano e il divino - può essere colto come una sorta di chiamata, di appello, a cui l’anima risponde spogliandosi e svuotandosi lungo il suo cammino di tutto ciò che è inessenziale e perituro. Desiderio ed attesa, sono dunque le parole che indicano la direzione di questo respiro nel quale tutti noi dimoriamo, noi con il Divino.

 

Un testo di Marco Vannini, filosofo e studioso di mistica cristiana, accompagna l’esposizione.

 

La mostra, allestita nella Cappella dello Spirito Santo nel primo chiostro del Monastero di Camaldoli, è visitabile ad ingresso libero tutti i giorni (orario continuato 8.00 – 22.00) e resterà aperta fino al 1° settembre. Successivamente le opere saranno presentate negli spazi espositivi del Museo Diocesano di Faenza in occasione della mostra “Verso la gioia”, un’importante personale dell’artista che inaugurerà il 14 settembre a Bagnacavallo nell’ex convento di San Francesco a cura di Massimo Pulini, su ideazione e progetto espositivo di Ettore Frani e Paola Feraiorni. 

Su Luminosa

di Ettore Frani e Paola Feraiorni

 

Il soggetto nodale che le opere in mostra intendono evocare è dato, a nostro avviso, dalla relazione intima e silenziosa che l’anima intrattiene con la propria origine divina, all’interno di una visione che oltrepassi la mera soggettività psichica ed egoica.

Le figure femminili, intese come dimora dell’anima, sono certamente simboli che fanno segno ad una realtà più spirituale che corporea. Sono scintille di luce aurorale, in cui la forma sembra trasmutare e ri-crearsi attraverso il proprio primigenio splendore; a significare, nel loro volgersi e apparire, una sola vocazione: incontrare ciò che da sempre si è sentiti di essere: luce di luce, specchio del divino, di là dallo spazio e dal tempo.

Noi crediamo fortemente che la pittura possa farsi ponte per una riflessione autentica sul nostro esser-ci e, pertanto, non può che essere, nella propria ultima essenza, intimamente legata al sentimento del sacro e al senso religioso della vita.

Ecco dunque a cosa tende il gesto pittorico: essere soglia dischiusa sul mistero dell’esistenza.    

Luminosa

di Marco Vannini

 

Le opere pittoriche di Ettore Frani qui esposte, dal suggestivo titolo di Luminosa, hanno un unico soggetto: la figura umana in dialogo con la luce. In certo senso, si potrebbe dire che non v’è niente di più ovvio, in quanto l’essere umano è luce. La lingua della filosofia, il greco, lo dice chiaramente, indicando con la stessa parola, phos, tanto la luce quanto l’uomo, e, dal canto suo, la fisica dei nostri giorni sembra confermarlo: siamo fatti di luce. L’antica sapienza indiana lo sapeva, identificando la luce del cielo e di ciò che è sopra il cielo – lo iperuranio, si direbbe platonicamente – con la luce che è all’interno dell’uomo, costituendolo per essenza. La Chandogya Upanishad (3, 13, 7) recita infatti:

 

Questa luce del cielo che, al di sopra di noi, splende al di là di tutte le cose, al di là dell’universo, nei mondi superiori, al di sopra dei quali non v’è più niente, questa luce è certamente la stessa luce che è dentro all’uomo.

 

Certo, occorre eliminare dall’anima ciò che le si è per così dire aggiunto, oscurando in parte la sua natura luminosa, ma se isola l’anima nella sua purezza, allora  «Pura e isolata, l’anima viene a consistere unicamente della sua propria luce», afferma il maestro dello Yoga,  Patañjali, nei suoi celebri Aforismi, III, 55.

 

Non è necessario cercare in Oriente, come oggi spesso è di moda, perché sulla luce in rapporto all’uomo abbiamo nella tradizione occidentale, prima ellenica e poi cristiana, una riflessione altrettanto profonda. Anzi, forse ancor più profonda, in quanto dialetticamente articolata, a partire dal primo grande filosofo del lógos, Eraclito, che sottolinea come il conflitto sia il padre di tutte le cose, e l’armonia risulti dall’unione dei contrari. Non c’è giorno senza notte, non v’è luce senza oscurità, per cui si può parlare di luce solo per il suo rapporto con le tenebre. In questo senso, potremmo anche dire che la luce, in quanto si staglia sulle tenebre, delle tenebre ha bisogno, non può farne a meno. Le lingue indoeuropee, come il greco e il latino, indicano il divino con termini che rimandano alla luce, ad es. deus da dies, cielo luminoso di giorno, e alla luce fa riferimento il nostro massimo poeta, quando deve rivolgersi a Dio nell’alto dei cieli: «luce eterna», lo chiama infatti più volte (Paradiso, XXXIII, 42, 83, 124), ma il filosofo di Efeso sottolinea che «Dio è giorno e notte…» (DK 22, B 67), e «giorno e notte sono un’unica cosa» (DK 22, B 57), perché, non cadendo nell’illusione dei sensi, ma ascoltando il lógos, «è saggio convenire che tutto è Uno» (DK 22, B 50).

    Queste riflessioni vengono spontanee alla mente proprio di fronte alle opere pittoriche di Ettore Frani, giacché ci pare che la luce della figura umana – anzi, la luce che è nella figura umana, che è la figura umana stessa – trovi la sua verità nel rapporto con l’oscurità e, in certo senso, a partire da essa. Questa è, del resto, la natura dell’uomo, che non è solo luce, o, come potremmo dire seguendo l’antropologia classica e cristiana, solo spirito, ma anche corpo e anima. Certo, la materia è pur sempre estrema propaggine della luce, perché tutto è Uno, e niente turba la divina armonia del Tutto, direbbero i platonici, cui fa eco il cristiano poeta, all’inizio del suo Paradiso: «La gloria di Colui che tutto move/ per l’universo penetra e risplende/ in una parte più e meno altrove….», per cui nessuna parte ne è esclusa, ma ciò non elimina affatto le distanze, non annulla la differenza tra luce e tenebra, anzi, quella opposizione, per cui le tenebre non hanno accolto la «luce vera» (Gv 1, 5). D’altra parte, tra luce e tenebra non v’è solo l’opposizione definitiva, ma anche una serie infinita di passaggi intermedi, con i quali la luce passa nella tenebra e la tenebra nella luce, così come per gradi il giorno passa nella notte e poi la notte nel giorno, e questa gradazione è ampiamente percepibile nelle sfumature presenti nelle opere di Ettore Frani.

La vicenda umana sta tutta in questa dialettica di presenza e assenza, di rapporto tra  spirito e carne, tra luce e tenebra, e, in parallelo, di un essere determinato, finito, qui in un tempo e in uno spazio, e di un essere infinito, al di sopra del tempo e dello spazio, per cui sempre e di nuovo si pone l’esigenza di far prevalere la luce eterna dell’anima sull’oscurità e la finitezza del tempo, necessariamente attraverso un serie di mediazioni. A questo esorta il Meister medievale:

 

C’è una luce nell’anima, dove mai è penetrato il tempo e lo spazio. Tutto ciò che il tempo e lo spazio hanno mai toccato, mai è giunto a questa luce. E in questa luce l’uomo deve permanere (Eckhart, sermone Laetare sterilis quae non paris)

 

La dialettica finito-infinito diventa quasi drammatica nello spazio necessariamente finito di un quadro, soprattutto se e quando esso tenta di esprimere l’infinito, come è il caso dell’opera pittorica cui stiamo facendo riferimento. Un quadro, per quanto bello e riuscito secondo la volontà dell’artista, è, in questo senso, comunque destinato allo scacco, in quanto può solo rimandare, e mai compiutamente esprimere, e questo è il suo destino.

Il più grande mistico dell’Occidente, cui si deve anche una delle più profonde riflessioni estetiche dell’intera storia del pensiero – Plotino  - esorta perciò a non tentare operazioni di forza, in ciò che concerne la luce, ovvero la grazia, ma stare semplicemente in attesa, vegliare. Proprio sul tema della  luce divina, scrive infatti:

 

Noi non sappiamo da dove è nata la grande luce, se dall’esterno o dall’interno; e quando essa è sparita diciamo: essa era interiore – eppure non era interiore. Non bisogna chiedersi donde sia apparsa, perché non ha nessun punto di origine: essa non parte da un luogo per andare a un altro, ma appare o non appare. Perciò non bisogna inseguirla, ma prepararsi ad assistere al suo apparire, come l’occhio attende lo spuntare del sole, il quale si eleva dall’orizzonte (“dall’Oceano”, dicono i poeti) e si offre ai nostri sguardi per essere contemplato (Enneadi, V, 5, 8).

 

Il nostro punto di vista è necessariamente particolare, limitato, come lo è lo spazio di un quadro, ma da ogni singolo punto di vista si può vedere comparire la grande luce, come da ogni angolo del pianeta si può vedere il sorgere del sole.

Concludiamo questa breve nota sulle opere di Ettore Frani, riportando ancora le profondissime, commoventi parole di Plotino sulla luce divina, il contatto con la quale è il vero fine dell’uomo, e che indicano, infine, l’unico modo per giungervi: il distacco.

 

Si è proprio costretti ad ammettere che l’anima Lo vede, quando viene improvvisamente inondata di luce. Perché questa luce viene da Lui ed è Lui. Allora si è proprio costretti a pensare che Egli sia presente, quando, come un Dio che ci inviti nella propria casa, Egli arriva e ci illumina. Se non fosse venuto, non ci avrebbe illuminati. Se non viene illuminata da Lui, l’anima è priva di Dio. Ma, se è illuminata, possiede quel che cercava. E questo è il vero fine dell’anima, il contatto con questa luce. Questa luce si vede mediante essa stessa, non con la luce di un altro. Infatti neppure il sole viene visto in una luce che non sia la sua. Ma come arrivarci? Distàccati da tutto (Enneadi, V, 3, 17)

 

opere in mostra

Luminosa I 2024 cm 40 x 30 olio su tavola melaminica
Luminosa II 2024 cm 40 x 30 olio su tavola melaminica
Luminosa III 2024 cm 40 x 30 olio su tavola melaminica
Luminosa IV 2024 cm 40 x 30 olio su tavola melaminica
Luminosa V 2024 cm 40 x 30 olio su tavola melaminica 2024 cm 40 x 30 olio su tavola melaminica
Luminosa VI 2024 cm 40 x 30 olio su tavola melaminica
Luminosa VII 2024 cm 40 x 30 olio su tavola melaminica
Luminosa VIII 2024 cm 40 x 30 olio su tavola melaminica
Luminosa IX 2024 cm 40 x 30 olio su tavola melaminica
Luminosa X 2024 cm 40 x 30 olio su tavola melaminica
Luminosa XI 2024 cm 40 x 30 olio su tavola melaminica
Luminosa XII 2024 cm 40 x 30 olio su tavola melaminica
Pupilla 2024 cm 86 x 86 olio su tavola melaminica

 

 

 

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