Nel lucido buio, la pittura di Ettore Frani.

Giorgio Agnisola

 

In principio è il nero, un nero lucido d’avorio, che Ettore Frani, artista molisano trapiantato sul litorale romano, incide, graffia, asporta, leviga con infinita pazienza ed incredibile tecnica. Il suo è un lento, misuratissimo ed ispirato lavorio di affioramento del bianco sottoposto al nero, creando figure, forme, contesti immersi in un profondo silenzio. Ab origine tutto è come nascosto, da scoprire, rivelare; l’occhio dell’artista penetra, indaga in cerca di luce, di essenza, con un animo vicino alla preghiera, invitando l’osservatore ad incamminarsi verso la medesima esplorazione. Frani compie nell’opera un vero e proprio viaggio spirituale. Anche se è vivo nella sua pittura il senso dell’oltre e della sintesi simbolica dei motivi che a quell’oltre si legano nel riflesso della coscienza e della intuizione, egli non mira ad una definizione sacrale della forma o ad una estatica contemplazione. Nella sua arte c’è soprattutto un forte respiro umano, esistenziale. Lo si avverte in particolare nel profilo dei volti e nei titoli dei dipinti, caratterizzati da un senso di intima partecipazione e di vigile attesa. Quella di Frani è in realtà una ricerca di senso, vissuta come avventura dello sguardo, come profonda riflessione, come intima rivelazione. Il suo esperto lavoro di pittore ha dunque anche un significato simbolico. E simboliche sono molte sue immagini, veri e propri luoghi della ricerca umana e psicologica e infine religiosa, di fronte al mistero della vita. Di Frani ricordo un dipinto splendido, collocato come predella ai piedi dell’altare maggiore della chiesa di san Fedele a Milano, in cui è rappresentato un telo ripiegato e misterioso, quasi sindonico. Il corpo è svanito, ma qualcosa della sua luce è rimasta nel tessuto, intride la trama delle ombre: una luce soprannaturale, che rende leggere le pieghe, le percorre e le attraversa: come una polvere luminosa che riveste la forma e la trasfigura, rimandando a colui che non è più e che al tempo stesso è ancora presente. Una simile suggestione, seppure in una prospettiva differente, segna il trittico del 2017-2020, L’ombra e la grazia, che costituisce una dei lavori più interessanti della presente, raffinata mostra catanese, promossa da Alfredo La Malfa presso la Fondazione La Verde La Malfa. Non è dunque una tensione oppositiva a segnare nell’arte di Frani la dialettica buio-luce. Neppure il segno della sua arte è il semplice emergere di quest’ultima nel buio della vita. E' piuttosto nel comporsi delle forme, nel loro prendere corpo cioè che l’arte di Frani acquista significato: dominata da un silenzio carico di sguardi ulteriori, vincolati ad una sorta di infinito ascolto, come si è scritto, interno ed esterno, in cui pare condensarsi il senso stesso dell’esistenza. In questo contesto l’arte di Frani sembra in equilibrio tra senso di fissità e dinamismo temporale, immanenza e trascendenza, senso sacrale di fisica attesa e intrinseca, permeata religiosità. E’ qui che si ravvisa la duplice prospettiva dello sguardo di Frani: una che tende ad una ulteriorità dell’essere e del sentire, interpretata anche in senso universale; l’altra pensosa e meditativa, più personale e intimistica, che indaga soprattutto i contesti da cui prendono avvio le interiori “liturgie” della sua pittura. A volte sono la concentrazione e l’attesa, come si è scritto, a segnare l’arte di Frani, come nell’opera Scintille, del 2019-2020. La tensione spirituale è fortissima nel bel volto che emerge dal buio, segnato da una luce interiore. Intorno piccole visioni, bagliori di grazia, conferiscono sacralità allo sguardo. In altri dipinti l’immagine si fa più simbolica, come in Ceneri, opera del 2017-2018. La relazione tra interno ed esterno, tra presenza e assenza, definisce una condizione psicologica. Se l’immagine appare statica nella sua rappresentazione, non è così nel riflesso emotivo di chi guarda. Lo sguardo, proteso a scrutare nel silenzio, subisce come una riflessione: lo spettatore viene spinto a sua volta a guardarsi dentro, a riconoscersi e interrogarsi. E’ il caso di Rivolta, dipinto del 2019. La figura è di spalle, in semiombra. La sua postura nella poca luce che illumina il capo e le spalle non è testimonianza di incomunicabilità, ma di individuale e misterioso isolamento spirituale. Sembra stigmatizzare una condizione di inquietudine, di personale ribellione. Altrove l’artista sembra voler catturare gli istanti della rivelazione. Nel lucido buio, trittico del 2017, opera di forte impatto emotivo, con uno spartito da pala d’altare l’artista rappresenta una finestra centrale aperta su di un buio siderale. A distanza il nero è compatto, caldo, profondo. Ma avvicinandosi ecco comparire piccole luci. Lo spettatore è invitato a compiere come un percorso di avvicinamento, di inoltro nell’invisibile, identificandosi con i volti rappresentati ai lati, ispirati e stupiti. Altre volte è la natura a fare da filtro. Un richiamo ai valori romantici, in particolare a Friedrich, è leggibile ne La ginestra, del 2016. La prospettiva indefinibile del dipinto, interpretata come nebbia al di là della siepe, si chiude fino a diventare metaforicamente fantasma interiore in Piccola Apocalisse, del 2019. Altrove l’avvertimento dell’oltre si materializza come deposito di luce, come in Prima sorgente, del 2017, lontano da sembrare irraggiungibile, o come mistero ascensionale, lento travaso di stille di materia luminosa tra cielo e terra, come in Attrazione celeste, dipinto del 2017. O come declino, tramonto della vita, forse, o perdita, abbandono, nell’opera Il dono. La vedovanza, del 2016-2018. Si colloca in uno spazio più concettuale il dittico Arca. Attesa, del 2018. Qui l’immagine, quasi di taglio iperrealista - la rappresentazione trasfigurata di un pane visto dall’interno- è confrontata in basso con una forma regolare, in cui si può leggere, accennata, un’alba di luce che emerge da un buio abissale. L’accostamento è simbolico, sembra alludere al nascere della vita come lento processo di misteriosa lievitazione. Una impalpabile luce ci apre verso un’appena percettibile riva che sembra simboleggiare in Viandanti, del 2018, il cammino che l’uomo è chiamato a compiere nella notte della propria esistenza. Un cammino talora incerto, carico di presagi, come ne L’onda, del 2016. Altrove la forma, nel suo profilo ambiguo, sfiorata dalla luce, annette un senso di arcaicità, che sembra rimandare al mistero dell’uomo e della sua storia, come in Prima radice, del 2017, e altresì nel dipinto E’ di luce il respiro della terra, del 2017-2019. Tutto sembra compiersi nell’opera di Frani nella prospettiva di una “riconciliazione”. Sicché il cielo si riflette capovolto nell’opera Ricucire il cielo, del 2017-2020. E’ così che Frani racconta il suo e il nostro destino.

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