Silvano Petrosino

 

Per Ettore Frani

 

 

Nel corso degli ultimi Seminari Lacan trascorreva gran parte del tempo alla lavagna a tracciare linee e a disegnare nodi. Cercava in tutti i modi di rappresentare su una superficie monodimensionale la pluridimensionalità del soggetto il cui modo d'essere non può mai essere rappresentato in modo lineare o puntiforme. Si trattava, in un certo senso, di disegnare il soggetto, il modo d'essere del soggetto, e a tale scopo lo psicoanalista non trovava di meglio che continuare a tracciare e intrecciare linee, che configurare legami attraverso l'invenzione di nodi sempre più aggrovigliati. In effetti, quando si pensa all'uomo, al peculiare modo d'essere dell'uomo, non si può fare a meno di imbattersi in una difficoltà essenziale: ogni uomo, come ogni altro esistente, è sempre situato in «qui», in un luogo ben determinato e circoscritto, ma ogni uomo, a differenza di ogni altro esistente, è sempre anche «là», è contemporaneamente anche sempre altrove, in un altro luogo ch'egli non riesce mai a situare con precisione. L'uomo, dunque, è sempre «qui», vive sempre in un mondo, il proprio, all'interno del quale si serve di questo e di quello per poter vivere, ma al tempo stesso egli, proprio in quanto uomo, vive anche «là», proiettando verso questo «là» ogni altra cosa che incontra e manipola nel suo «qui». Scrive Ernest Cassirer: «[L'uomo] non vive più in un universo soltanto fisico ma in un universo simbolico. Il linguaggio, il mito, l'arte e la religione fanno parte di questo universo, sono i fili che costituiscono il tessuto simbolico, l'aggrovigliata trama della umana esperienza [...] L'uomo non si trova più direttamene di fronte alla realtà; per così dire, egli non può più vederla faccia a faccia [...] Invece di avere a che fare con le cose stesse, in un certo senso l'uomo è continuamente a colloquio con se medesimo [...] Anche nel campo pratico l'uomo non vive in un mondo di puri fatti secondo i sui bisogni e i suoi desideri più immediati. Vive, piuttosto, fra emozioni suscitate dall'immaginazione, fra paure e speranze, fra illusioni e disillusioni, fra fantasie e sogni» (E. Cassirer, Saggio sull'uomo, trad. it., Mimesis, Milano 2011, pp. 47-48). Ecco la difficoltà che costringeva Lacan ad attardarsi alla lavagna: come «disegnare» un «qui» che al tempo stesso è sempre anche «là», ma anche come alludere ad un «là» che è sempre legato ad un «qui» senza essere semplicemente la sua negazione?

 

Forse la categoria dello «spirito» è la più adeguata per tentare di esprimere una simile mobilità. In tal senso l'uomo è un essere spirituale proprio perché il suo «qui» è «aperto» al «là», proprio perché l'«apertura», direbbe Heidegger, esprime il cuore stesso del modo d'essere dell'uomo. Ma la categoria dello «spirituale» è in se stessa instabile, direi quasi intrattabile, vista l'estrema facilità con la quale essa si corrompe trasformandosi in fuga ed ultimamente in chimera. Tale corruzione è ben visibile nei due campi, se così posso esprimermi, che più di altri hanno a che fare con lo spirito e lo spirituale: l'arte e la religione. L'umano si dissolve senza arte e religione, vale a dire senza quei luoghi all'interno dei quali gli uomini cercano di abitare esplicitamente e direttamente  il rapporto tra il «qui» e il «là» che in verità attraversa ogni istante della loro vita; ma proprio per questo tali luoghi sono costantemente attraversati del rischio dello spiritualismo, dello spiritismo, ultimamente della follia. E' estremamente difficile abitare l'apertura senza volerla chiudere e dominare, ma anche senza lasciarsi risucchiare da essa e in essa; abitare certamente non vuol dire conquistare, ma altrettanto certamente non vuol dire smarrirsi e lasciarsi andare. La topologia umana non è mai banale; Scrive Mark Rothko: «Sembra che il ruolo dell'artista sia quello di indagare e di incitare, rischiando la distruzione, il prezzo da pagare per aver violato una terra proibita. Pochi sfuggirono all'annientamento e tornarono indietro per raccontare quanto accaduto» (M. Rothko, Scritti sull'arte. 1934-1969, trad. it., Donzelli, Roma 2007, p. 153). Abitare l'apertura è difficile e drammatico, vivere con verità il proprio «qui» che al tempo stesso è sempre anche «là» è un gesto quasi impossibile, ma è proprio con questo impossibile che non cessano di misurarsi sia l'arte che la religione. 

 

La pittura di Ettore Frani ne è una prova, una magnifica prova. L’oggetto è colto nel suo essere «qui»: uno straccio appeso, un barattolo, una pagnotta di pane, il volto della donna amata; non c'è astrattezza, non c'è neppure banale realismo; ma al tempo stesso l'oggetto è anche e contemporaneamente colto nel suo essere «là», nel suo rinviare o essere raggiunto dal «là». Lo strumento che apre al «là», che illumina l'apertura o la ferita in cui l'uomo si trova coinvolto è la luce stessa, che talvolta viene dall'alto e talvolta va verso l'alto; da questo punto di vista con la sua pittura Frani non solo illumina l'essere illuminato di ogni cosa ma porta anche alla luce l'illuminare stesso di ogni cosa: che ogni cosa sia illuminata significa infatti che ogni cosa, illuminata dallo sguardo dell'uomo/artista, risulta  in se stessa luce e illuminazione. E così vi sono lampi, scintille, fuochi, ma anche vapori e respiri, un continuo movimento che dal «qui» va «là» e dal «là» raggiunge il «qui».

 

Anche Frani, dunque, come Lacan, cerca ultimamente di disegnare il modo d'essere dell'uomo, ma, a differenza dello psicoanalista francese, egli cerca di farlo non con le linee e con i nodi ma con la luce, non cercando di individuare i diversi fili della «aggrovigliata trama della umana esperienza» ma sforzandosi di farla risplendere proprio in quanto trama. In un tale sforzo ne va, non tanto della nominazione, quanto della testimonianza: si tratta di rendere testimonianza a quello splendore che solo un certo sguardo è capace di riconoscere come tale; Mikel Dufrenne, nelle prime pagine del suo Phénoménologie de l'expérience esthétique, scrive: «Percepire esteticamente è percepire fedelmente; la percezione è un compito, perché esistono percezioni maldestre che si lasciano sfuggire l'oggetto estetico, e soltanto una percezione adeguata realizza la qualità estetica. Perciò quando analizzeremo l'esperienza estetica, presupporremo una retta percezione: la fenomenologia sarà implicitamente una deontologia» (M. Dufrenne, Fenomenologia dell'esperienza estetica, trad. it., Lerici editore, Roma 1969, p. 24, corsivi miei).

 

Anche di questo la pittura di Frani è una conferma, e a mio modesto avviso un'importante e magnifica conferma. 

   

 

testo tratto dal catalogo della mostra personale Ricucire il cielo, apr-giu 2017 Galleria Nuova Morone Milano

 

 

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Silvano Petrosino

 

For Ettore Frani

 

 

During the last Lacan Seminars he spent most of the time at the blackboard tracing lines and drawing knots. He was trying in all ways to represent on a mono-dimensional surface the multi- dimensions of the subject whose way of being can never be represented in a linear or pointed way. It was, somehow, to draw the subject, the way of being of the subject, and to this objective the psychoanalyst cannot find anything better than to continue to draw and intertwine lines, than give shape to connections through the invention of knots always more entangled. Well, when one thinks about man, to the peculiar way of being of man, one cannot avoid to run across an essential difficulty: every man, like any other being, is always placed in «here», in a well determined and limited place, but every man, contrary to any other being, is always also «there», is simultaneously also always elsewhere, in another place that he never defines precisely. Man, therefore, is always «here», lives always in a world, his own, within which takes this and that to be able to live, but at the same time he, because he is a man, lives also «there» casting towards this «there» every other thing which he meets and manipulates in his «here». Ernest Cassirer writes: «[Man] does not live anymore only in a physical universe but in a symbolic universe. The language, the myth, the art and the religion belong to this universe, are the threads that form the symbolic texture, the entangled plot of the human experience [...] Man does not find himself anymore directly before reality; so to say, he cannot see it anymore face to face [...] Instead of having to deal with things themselves, in a way man is continuously engaged in conversation with himself [...] Also in the practical sphere man does not live in a world of pure facts according to his more immediate needs and desires. Man lives, rather, among emotions caused by imagination, among fears and hopes, among illusions and disappointments, among phantasies and dreams». (E. Cassirer, Essay on man, trad. it., Mimesis, Milano 2011, pp. 47 – 48). Here is the difficulty which compelled Lacan to spend time on the blackboard: how «to draw» a «here» which at the same time is always also «there», but also how to refer to a «there» which is always connected to a «here» without being simply its denial?

Perhaps the category of the «soul» is the most adequate to attempt to express such a mobility. In this sense man is a spiritual being because his «here» is «open» to «there», because the «opening», as Heidegger would say, expresses the core of the way of being of man. But the category of the «spiritual» is in itself unstable, I would say almost unmanageable, seeing the extreme facility with which it decays itself transforming itself in flight and ultimately in chimera. Such decay is well visible in the two spheres, if I can so express myself, that more than others have something to do with the soul and the spiritual: art and religion. The human aspect vanishes without art and religion, meaning without those places within which men try to live clearly and directly the connection between «here» and «there» that truly crosses each instant of their life; but surely for these such places are constantly crossed by the risk of spiritualism, of spiritism, ultimately of madness. It is extremely difficult to inhabit the opening without wanting to close and dominate it, but also without being sucked by it and in it; to inhabit does not certainly mean to conquer, but equally certain it does not mean to be bewildered and let oneself go. Human behavior is never banal; Writes Mark Rothko: «It seems that the role of the artist is that of inquiring and inciting, risking distruction, the price to pay for having violated a prohibited ground. Few got away from annihilation and returned to narrate what had happened» (M. Rothko, Essay on art. 1934 – 1969, trad. it., Donzelli, Roma 2007, p.153). To inhabit the opening is difficult and dramatic, to live truthfully his own «here» which at the same time is always also «there» it is almost an impossible gesture, but it is exactly with this impossibility that art and religion never cease to measure themselves.

Ettore Frani's painting is proof of this, a magnificent proof. The object is captured in its being «here»: a hanging rag, a jar, a loaf of bread, the face of the loved woman; there is no abstractness, there is not even banal realism; but at the same time the object is also and simultaneously captured in its being «there», in its deferring or being reached by «there». The tool which opens to «there», which illuminates the opening or the wound in which man finds himself involved is light itself, which sometimes comes from above and sometimes goes towards the above; from this point of view with his work Frani not only illuminates the being illuminated of each thing but he also brings to light the light itself of each thing: that each thing is lit means in fact that each thing, illuminated by the glance of the man/artist, results in itself light and lighting. And so there are lightning, sparks, fires, but also vapors and sighs, a continuous movement that from «here» goes «there» and from «there» gets to «here». 

Also Frani, therefore, like Lacan, tries after all to draw the way of being of man, but, contrary to the French psychoanalyst, he tries to do it not with lines and with knots but with light, not trying to individualize the various threads of the «entangled plot of the human experience» but forcing himself to make it shine because it is the plot. In this effort it is important, not so much naming but testifying: it means to recognize that splendor that only a certain glance is capable to recognize as such; Mikel Dufrenne, in the first pages of his Phénoménologie de l’expérience esthétique, writes: «To perceive aesthetically is to perceive faithfully; perceiving is a task, because there are awkward perceptions which let go of the aesthetic object, and only an adequate perception achieves the aesthetic quality. Therefore, when we analyze the aesthetic experience, we will presuppose a clear perception: the phenomenology will be implicitly a deontology» (M. Dufrenne, Phenomenology of the aesthetic experience, trad. it., Lerici editor, Roma 1969, p. 24, my cursives). 

Also in this Frani's painting is a proof, and in my modest opinion an important and magnificent proof. 

 

 

Essay from the catalogue of the solo exhibition Ricucire il cielo (Resew the sky), apr-jun 2017 Galleria Nuova Morone, Milan

 

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