Massimo Recalcati
L’attesa dell’ignoto. Una nota su Ettore Frani
La tendenza analitico-concettuale dell’arte contemporanea sospinge verso l’azzeramento della visione. Sculture di vapore, inesistenti, capannoni vuoti, luci al neon su sfondi desolati, geometrie minimaliste, pannelli monocromi. Esiste una tendenza dell’arte contemporanea che annuncia la riduzione dell’opera a niente da vedere. E’ a mio giudizio un sintomo della crisi del nostro tempo che investe la funzione stessa dell’opera d’arte. Tendenza anoressoide, diuretica e sterilizzante del linguaggio ipermoderno dell’arte che decreta la morte dell’opera come evento attraverso una sua metacritica teoreticistica dagli esiti nichilistici.
Solo una percezione sviata può però ricondurre a questa tendenza sintomatica la grazia metafisica dell’opera di Ettore Frani. In questo caso, infatti, il costeggiamento del limite del visibile, il confronto con il nulla e il vuoto, raggiunge ben altri esiti da quelli raggiunti dalla linea analitico-concettuale. Qui siamo di fronte al miracolo dell’opera, all’opera come evento, e non alla sua estinzione cinica. Qui il mistero dell’opera sopravvive con una forza e una freschezza antica e nuova insieme.
In queste ultime riuscite opere di Frani il bianco e le sue ombre, le sue maculature leggere ed enigmatiche troneggiano liriche e assolute. Certamente rivediamo apparire in esse qualcosa degli straordinari Achromes di Piero Manzoni e del loro mistero elementare. Ma mentre l’artista milanese finiva per curvare la gloria di quelle superfici matericamente addensate, bendate, velate, verso una critica ironica e provocatoriamente dissacratoria del linguaggio dell’arte, Ettore Frani s’impegna in tutt’altra direzione. Per lui l’opera è ancora nella dimensione irripetibile dell’evento, è un’apertura sull’assoluto, una cifra che resiste ad ogni possibile decifrazione. Attingere al silenzio, sospendere lo sguardo, cogliere nel cuore del visibile ciò che eccede l’orizzonte del visibile. In questo senso Frani ha ancora il coraggio di impegnare l’arte in un confronto serrato e per niente retorico con l’assoluto. Coraggio sempre più raro nel panorama dell’arte contemporanea che sembra irridere in modo disincantato rispetto alla vocazione lirica dell’opera che inevitabilmente la espone alla dimensione dell’incommensurabile e dell’indicibile. E tuttavia l’insistenza di Frani è proprio dedicata a circondare, organizzare e costeggiare questa dimensione. E’ dedicata ad aprirsi ancora all’incontro con l’invisibile. Ma non è forse questo il modo con il quale Paul Klee definiva la finalità ultima della pratica dell’arte? In ogni opera che sia tale non è in gioco la riproduzione del visibile ma rendere visibile (l’invisibile).
I bianchi di Frani sono velature? Sono schermi vuoti in attesa di immagini? Sono sudari? Sono l’ultimo velo che ricopre il reale dell’esistenza? Una cosa è certa; la pittura di Frani rinnova profondamente, con questo suo ciclo dei bianchi, la dimensione sacra della pittura. E in questo rinnovamento essa incrocia gli esiti ultimi del percorso pittorico di William Congdon. I campi squadrati e geometrici della pianura padana che appaiono come superfici ridotte all’essenziale, porzioni di un essere irriducibile al caos elettrizzato che popola la scena del mondo, ma, soprattutto, i cieli, gli inverni, le brine e le nebbie bianche della fine degli anni Ottanta che esaltano silenziosamente la “misteriosa forza” dell’Altro.
Se scrivo che l’opera di Frani è animata da una forte tensione sacra bisogna però subito aggiungere che nel suo lavoro l’incontro con l’assoluto non avviene mai attraverso la retorica persuasiva del simbolo. Non assume alcuna caratteristica ideologica. Vale per Frani quello che dichiarava un altro grande pittore del sacro come è stato Vincent Van Gogh: il volto del santo non lo si può dipingere direttamente senza fatalmente depotenziarne il carattere assoluto. Il volto del santo non può essere raffigurato senza perderlo perché esso sfugge per principio ad ogni possibile raffigurazione. E’ eccedenza impossibile da raffigurare. Ecco perché Van Gogh poteva assumere come indici dell’assoluto “solo” gli elementi della natura: iris, campi di grano, girasoli, ulivi, prati, cieli, stelle, cipressi. La pittura sacra più potente non è mai stata pittura illustrativamente simbolica dell’assoluto. Perché ogni illustrazione dell’assoluto è destinata ad impoverire ciò che vorrebbe rappresentare. Mentre Van Gogh aggira questa contraddizione elevando un oggetto di natura alla dignità dell’assoluto, la via scelta da Frani, almeno in questo ultimo ciclo di opere bianche, non passa da alcun oggetto del mondo, né da alcuna immagine della natura. Questa volta la sua pittura è pura pittura dell’assenza dell’oggetto. E’ pittura dell’attesa. E’ pittura dell’attesa dell’ignoto. L’oggetto del mondo è ridotto ad un esile filo di nylon, ad un’ombra, ad un segno quasi impercettibile, ad un Quasi nulla. Ma è proprio in questo “quasi”, in questo tempo precario e incerto che precede lo sprofondamento nell’abisso che Frani colloca l’evento stesso della cifra dell’opera. In un tempo che non è ancora il tempo della dissoluzione, della catastrofe, dell’annichilimento, ma che non è nemmeno più il tempo rassicurante del nostro tran tran quotidiano. E’ piuttosto il tempo come distensione dell’anima (S.Agostino), come battito e come taglio in atto (Lacan). Il tempo dell’evento dell’opera, insiste Frani, è il tempo dell’attesa dell’ignoto. Allora la forza rara della sua pittura consiste proprio nel riuscire ad occupare questo tempo incerto e privo di garanzie, questo tempo di attesa dell’ignoto, con disciplina e abbandono insieme. Se, dunque, l’assenza è in primo piano non è perché c’è catastrofe senza ritorno, ma perché la promessa è ancora possibile. Se la tomba di Cristo, come quella di Mosè, è vuota, come scriveva Lacan, non viene certo meno il mistero infinito di ciò che sfugge alla parola, il mistero dell’indicibile, il mistero del reale. Ci vuole però “rispetto”, direbbe sempre Lacan, verso questa assenza. Era la sua definizione della sublimazione religiosa che egli contrapponeva al discorso religioso che, come tale, eviterebbe, invece, fobicamente di confrontarsi con la dimensione reale dell’indicibile. La pratica dell’arte è tale se sa esprimere rispetto nei confronti di questo reale e se sa costeggiare il bordo del vuoto, il bordo della Cosa impossibile da raffigurare. E’ ciò che accade in modo potente in un’opera come Altare dove Frani illumina un orizzonte che resta disabitato, vuoto appunto, ma invaso poeticamente da un’assenza gravida di forza e ricca di presenza. Questo rispetto della Cosa impossibile da dire è probabilmente la cifra maggiore della ricerca di Frani ed esprime tutta la tensione che anima la sua opera: entrare in rapporto con ciò con il quale non si può essere in rapporto perché esorbita le possibilità della parola. Si tratta del “rispetto”, o del “riguardo”, come direbbe lo stesso Frani, verso tutto ciò che sfugge alla falsa padronanza del nostro sapere. Per questa ragione il suo elogio poetico dell’assenza non esprime alcuna violenza iconoclastica. E nemmeno giustifica un abbandono astrattista del visibile. L’evocazione dell’invisibile avviene solo attraverso l’abbandono liricissimo all’altare dell’assenza. E qui, in questo punto dove il visibile si spoglia e si sottrae allo sguardo, dove l’oggetto si smaterializza e lascia il suo posto vuoto, l’assenza stessa diventa mistero di una presenza lontana e vicina, diventa un’icona dell’irrapresentabile.
Testo scritto in occasione della mostra personale Risonanze a cura di Andrea dall’Asta Galleria San Fedele Milano 2010 e pubblicato successivamente nel catalogo della mostra L’Arca dell’Arte a cura di Umberto Palestini, Rocca Ubaldinesca Sasso Corvaro - Edizioni Barskerville 2016