Matteo Galbiati
Ettore Frani. Immagini di confine
Nel complesso e variegato panorama del sistema dell’arte contemporanea – sistema che, oltre a celebrare il già affermato dovrebbe anche imparare a selezionare e studiare gli artisti emergenti più capaci e a consacrare al nostro domani il talento pertinace della loro poesia – ci si stupisce sempre nel verificare, a proposito di giovani artisti, quanto questi mirino, quasi a senso unico e in maniera inusitata, alla ribalta e alla fama, trascurando, nella maggior parte dei casi, il senso e la densità di quello che con l’arte vanno cercando. Ignorano spesso la coerenza che devono avere i loro contenuti e fanno scadere, in balia della superficialità effimera delle occasioni, le loro opere nella banalità delle circostanze alle quali le vogliono legare. Diverso atteggiamento hanno coloro i quali cercano e ricercano, facendo prevalere il lavoro di studio – inteso come riflessione e impegno in atelier o in bottega per dirla all’antica – all’auto-celebrazione propagandistica. Sarebbe una premessa inutilmente polemica se non fosse necessaria ad evidenziare, invece, come siano altre le logiche e ben diversi siano gli atteggiamenti che spingono la coscienza e la dedizione di quegli artisti che fanno, della dialettica della riflessione, il dono più grande alla loro arte. Loro rendono orgoglioso il nostro sguardo dinnanzi al loro talento, sincero e spontaneo nello sforzo di farsi ricercatore e sperimentatore fecondo e infaticabile.
Ettore Frani, artista schivo e riservato, concentrato e silenzioso, eppure umanamente tanto intenso e accorato nel rapporto con gli altri, ha coerentemente scelto – per l’importante occasione istituzionale rappresentata da Critica In Arte – non di esporre opere di convenienza o di garantire la sorpresa dell’ultima invenzione o novità, ma ha optato per una scelta filologica all’interno del suo percorso artistico. Ha voluto predisporre un percorso di opere con le quali enunciare il senso di continuità instancabile insito nella sua ricerca. Opera dopo opera si esegue un passaggio continuo di senso che si fa persuasivo per qualunque spettatore. Dipana la lettura di un racconto, continuo e perdurante.
Frani ha selezionato – e anche lasciato selezionare – con cura un nucleo ristretto di opere. Le più adatte e rispondenti nel favorire la naturale immediatezza emotiva nell’incontro con lo sguardo di un pubblico variegato, pubblico al quale viene garantita, in questa mostra, la comprensione del cammino coerente affrontato dalla sua ricerca negli ultimi cinque anni. Quindi, scrupolosamente scelte, le opere per Critica In Arte si suddividono, nelle due sale a lui assegnate, secondo una logica di re-visione (di controllo e pure di nuova visione) di quanto ha fatto in questo lasso di tempo, per dichiarare la linea di logico e ponderato cambiamento rinnovabile nell’evoluzione di quel sentire poetico profondo e umano, che in Frani cresce da ogni sua consolidata conquista e va sempre oltre il confine dell’ultimo suo traguardo. Ettore Frani ci palesa pacatamente, senza clamori, il vigore di un pensiero vigile, questo sì da vero artista, da intellettuale vivo e non stantio o ruffiano che sa scoprire il nuovo mirando al limitare di un orizzonte che scivola sempre, in una tensione al cercare, un po’ oltre il suo termine invisibile.
Pensare nei termini di un concetto di confine nuovo, che si riapre originato da ogni altro da poco superato e divenuto traguardo, evidenzia bene quella tensione silenziosa verso l’altrove declamata dalla pittura rarefatta e sintetica di questo giovane artista. Una pittura che si rinvigorisce al suo ultimo arrivo e si proietta subito in una nuova partenza. Pittura che potremmo definire, quindi, come un territorio di transizione – un confine per l’appunto – tra un prima e un dopo, tra un qui e un altrove, in cui non si innesca una sensazione di separazione tra opposti, ma un’estensione inattesa e sospesa che si estende nel durante o nel dovunque. Il confine declamato pittoricamente da Frani, non è una zona calda, un difficile luogo in perenne stato di allarme rosso, immobile per tensioni inespresse, ma un campo aperto di dichiarazioni che intelligentemente si offrono alla libertà del loro passare da una zona all’altra secondo un’osmosi alchemica imperscutabile.
Colpisce, nell’osservare la lenta maturazione del suo linguaggio opera dopo opera, come la sua pittura, condotta sulla tavola con uno spirito che, senza denigrazione, potremmo romanticamente definire all’antica – Frani è un maestro del pennello – ispiri il contenuto del dipinto accendendolo di intenzione. Non svanisce la liricità del coinvolgimento sensibile nel progressivo evolversi della narrazione figurale, che rischierebbe di perdersi o disperdersi nella comprensione della visione, ma si alleggerisce sempre e sempre ritrova quella freschezza che ne riattiva l’impressione.
Frani dipinge, si diceva, seguendo una pratica pittorica tradizionale e accademica, sviscera ed esorcizza quel preconcetto che si paventa nell’uso di questi termini che hanno, nella prassi di certa critica attuale, quasi un malcelato accento negativo. Lui dipinge e fa pittura nel senso nobile del termine, spingendo questa pratica artistica ad orientarsi in forme più meditative e visionarie – e per questo feconde e piene di emozione e scoperte – rispetto la pochezza di molti giovani pittori attuali che si sforzano di voler essere nuovi – e si credono tali! – senza capire a fondo quel che fanno.
Ettore Frani lascia, con naturale scioltezza, decorrere un’esplorazione silenziosa e puntuale nell’agire dipingendo che porta ad innalzare lo sguardo nell’evidenza straordinaria dell’evanescenza, della trasparenza e dell’invisibile. Cerca di inseguire la raffigurazione dell’inafferrabile che supera e valica le stesse forme auroralmente figurative che riusciamo, talvolta, a riconoscere nella densità rarefatta dei suoi colori. Non vediamo più cose concrete ma le loro ombre (o forse meglio le loro anime?). Per questo credo sia appropriato definirla pittura di impressione.
Un’impressione che trova una logica originandosi – salvo poche eccezioni – unicamente dalla predominanza di due soli colori, che sono unici registi e attori protagonisti dello spettacolo rappresentativo dei suoi racconti e delle sue visioni: il bianco e il nero. Il tutto e il niente. Il buio e la luce. Sarebbe un errore pensarli come elementi contrastanti, andando così a ledere quel principio di unitarietà coesa che hanno e che tenacemente conservano, perché al contrario, nei suoi dipinti sono un tutt’uno. La loro opposta attitudine viene, infatti, magistralmente sublimata e stemperata nei passaggi e nelle modulazioni del grigio. Un grigio che non consideriamo mai presenza freddamente spettrale e non denuncia nemmeno atmosfere decadenti: il grigio di Frani non è un compromesso o una via di mezzo, una scorciatoia, ma è caldo e vivo, intensamente struggente quanto inspiegabilmente vivificante, strumento attivatore delle sensibilità.
La concretezza composta del suo gesto, la cura concentrata dell’esecuzione sono poi gli indici di un saper scrivere secondo la prassi di un amanuense: se tutto sembra dominato dal caso e dall’incidenza, su questa imperturbabile imponderabilità Ettore Frani interviene e agisce con disciplina e controllo. Ogni sfumatura accede al postulato di quella contigua assorbendo il desiderio svelatore dello sguardo e lo alimenta e nutre della magia soffusa del mistero. Lo proietta in una dimensione nuova. In questo passaggio di stato – sempre l’idea di confine è presente – all’interno della matrice della scrittura pittorica, il grigio acquisisce il suo senso vitale e unificatore tra la potenza totalizzante del bianco e l’eclisse nichilista del nero. Tale vibrazione avvincente concede all’immagine, pre e post figurale, il suo doppio mentale. La figura si astrae sottraendosi alla visione del vero per provare a decifrare i contenuti più segreti e imperscrutabili dell’idea e dell’intuizione che essa comunica o che ad essa si associa. In tal modo la fragilità rarefatta rimanda a quel territorio immaginifico che si pone – come ho già avuto modo di affermare sul lavoro di Frani – al confine estremo del visibile in bilico sull’orlo della trascendenza, dove il tempo minuto vive e assapora l’eterno. Estremo attimo cui la sua poetica pittorica è arrivata nelle nuove opere. Solo allora passa oltre e perfora la cortina sottile di luce e materia che diventa impalpabile agli occhi, concretizzando l’intensità di un pensiero superiore. Altro perché meta-fisico. Ulteriore rispetto la concretezza del materiale.
Lo sguardo matura riferito ad uno spazio accessibile di eternità, di trascendenza di spiritualità e sacralità – non necessariamente religiosa – e si rafforza col parallelo crescere ed evolvere dei temi e dei soggetti (ampiamente illustrati nel presente catalogo). I soggetti, solo in apparenza sempre gli stessi, transitano da figure reali e particolari come frutti, piante, volti, sagome umane, etc… alla loro presentificazione in modello assoluto.
Spostando la visione ad un livello superiore della verità reale, l’artista sente la necessità di far comprendere come la singola immagine non resti in alcun modo subordinata alla sua sembianza precostituita e, nell’evoluzione indeterminabile degli accordi del colore dipinto, lasci subentrare un’altra di stesso genere ma di valore nuovo. Le immagini delle cose reali accedono al loro doppio, alla vivificazione concreta della loro idea. Avviene un processo di trasfigurazione facilmente leggibile nelle figurazioni di Frani: possiamo passare dal microcosmo imperfetto del vissuto al macrocosmo degli eventi del sentire. Da pittura terrena cambia registro e diventa ultraterrena. Si svuota di materia per divenire principio fantasmatico. Attraverso la feconda intuizione del suo poter esprimere altro, vediamo come la luce viri e si accalori: se le prime immagini sembravano formarsi dal profondo del nero (la coscienza) ora le stesse si estendono e, solitarie, escono dal bianco acceso (la rivelazione). Le ombre restano come chiaroscuro ideale e proficuo a farsi rappresentante della precedente sostanza concreta. Qui la pittura di Frani compie un passo decisivo, attua quella svolta che lascia accedere alla serie nuova di lavori.
Senza paura riesce a dipingere grandi spazi di vuoto, incidendo la rilevanza di una monocromia epidermica e viva. Ritroviamo fortificato il bianco, ora quasi assoluto, che si fa cassa di risonanza per lo sguardo e depaupera, da ogni immagine tangibile, la superficie dipinta per presentarsi come muta annunciazione. Ogni senso viene indirizzato verso quella sopraggiunta consapevolezza che è viva solo se ha un sano desiderio di scoperta. Oltre la pelle della superficie stessa del dipinto. Oltre le consuete immagini estatiche che assorbono e disorientano con la bellezza delle loro forme estetizzanti e piacione. Qui la bellezza che mostra Frani è quella occulta e invisibile, quella da cercare altrove, dietro il segreto limbo dello sguardo.
Chi osserva deve ricredersi di ciò che comprende e deve riservarsi un tempo maggiore per conoscere, per svelare il lato misterioso ed oscuro che sottende al presagio della forma. La ricerca dell’indecifrabile e dell’inafferrabile è lo scopo di questa attesa. Un’attesa che diventa epifania, nel tempo in cui quel bianco-nero concede e lascia comprendere la sua intima verità. Un bianco che non è cancellazione o privazione, ma rivelazione e scoperta. La silenziosa esibizione del tutto. Anche con la residua presenza del nero che mai può mancare ed esimersi da questa consacrazione sensibile e trascendente del sublime. Ritroviamo la potenzialità del grigio che si fa spirito.
Il senso del sublime senza tempo viene, infatti, sviluppato da Frani secondo una certa idea di sacralità, liberamente laica, ripresa anche nella composizione dei dipinti recenti che presentano una struttura rinnovata: le tavole s’ingrandiscono e si dispongono ora in formazione di polittici. La seconda sala della mostra, che diventa quasi un piccolo sacello liturgico, colpisce per la maestosa sontuosità di queste opere composite. Qui si risolvono le sue immagini nell’ottica di una più marcata concentrazione sul valore simbolico della pittura e sulla sua responsabilità nel darsi all’invisibile. La formazione a polittico deve diventare la soglia trasfigurante – per una certa presenza formale nella memoria – oltre la quale tutto si risolve in un’atmosfera di leggerezza e annullamento della materialità corruttibile. Si tende al mistero dell’incommensurabile, dopo la revoca che l’artista ha agito dell’obbligo incombente, per la gravità fisica, di essere narrazione reale (come aveva nei cicli precedenti di lavori). Il suo linguaggio s’impegna ancor di più e riesce nella missione ardua a riportare lo sguardo – e il sentimento e l’anima – al senso atavico e misterico della visione pura. Sviscerata da vincoli formali.
Frani parla attraverso i dipinti solleticando la contemplazione di visioni che non presentano l’ostentazione della bellezza, vuota e fragile, frenata da parametri e criteri estetici, oggi tanto ricercati, ma accede ad un visibile che ha un senso alto di moralità e rispetto per il profondo valore del vedere e del capire il messaggio potente dell’arte. Questa bellezza si concede e vale ora sempre, perché ritrova forza e verità nell’emozione che sa suscitare. Svincolata dal tempo fugace delle mode.
Perché chiosare cosi lungamente sul carattere e la moralità di un artista giovane, sulle peculiarità di un dipingere che da queste non si scosta? Per due ragioni essenziali: la prima perché oggi abbiamo necessità di restituire dignità e splendore all’incanto che l’arte sa creare e riportare intelligenza alla voce del suo dire. La seconda per un rispetto intimamente calato nel profondo del rapporto tra spettatore e artista, rapporto che ha bisogno di tornare ad alimentarsi di emozioni vere e pulite, nella reciprocità tra l’uno e l’altro.
L’arte di Ettore Frani risulta potente ed efficace, perché lascia trascendere lo sguardo e, senza dimenticare la forza e l’esempio della storia, sa guardare ben oltre quel confine lontano che, appena intelligibile, sembra afferrare e trattenere in sé. Un confine difficile da valicare, ma trova fiducia nell’attesa del suo e nostro futuro.
Testo tratto da Critica in Arte 2012, mostra tenutasi presso il MAR-Museo d'Arte della città di Ravenna, nov 2012 /gen 2013