EX CONVENTO DI SAN FRANCESCO
Bagnacavallo
14 settembre 2024 | 24 novembre 2024
V E R S O L A G I O I A
a cura di Paola Feraiorni e Massimo Pulini
Sabato 14 settembre alle ore 18, all’interno delle antiche sale dell’Ex Convento di San Francesco a Bagnacavallo, apre al pubblico la mostra Ettore Frani. Verso la gioia a cura di Paola Feraiorni e Massimo Pulini. L’esposizione, promossa dal Comune di Bagnacavallo e organizzata dal Museo Civico delle Cappuccine in occasione della Festa di S. Michele, rappresenta l’esito ultimo di una riflessione, urgente quanto strutturata, maturata negli ultimi tre anni di ricerca di Ettore Frani. L’artista, oltre a riprendere in maniera più approfondita alcuni temi e soggetti emblematici della sua poetica, presenta una serie di opere inedite, molte delle quali realizzate appositamente per i suggestivi spazi dell’ex convento di San Francesco.
La mostra vede esposti ottanta lavori su carta, oltre quaranta dipinti e, per la prima volta, cinque installazioni pittoriche. Opere che vanno dal disegno, realizzato a grafite su molteplici e sovrapposti strati di carta, alla pittura ad olio su tavola laccata e, tra queste, cinque installazioni dal suggestivo titolo Offerta, dove l’artista si appropria anche di materiali atipici all’interno del suo percorso artistico, ma dal significativo valore simbolico: sassi, polvere, cenere, vetro, quaderni d’appunti, stracci e pennelli.
Il titolo della mostra prende avvio da una serie di opere che Frani ha realizzato negli ultimi anni e mette a tema, non tanto uno stato d’essere, quanto invece il senso di un procedere, di una tensione, di uno sguardo atto rivelare ciò che potrebbe essere indicata come una meta, in cui disciogliere la sofferenza nella gioia e l’ombra stessa nella luce.
L’esposizione è presentata attraverso un vero e proprio percorso che parte dalla grande composizione Di polvere e luce, composta da sessantaquattro disegni, fino a giungere al polittico ad olio Verso la gioia, che dà il titolo alla mostra – già esposto presso il Museo delle Cappuccine nel 2022 ma rielaborato per l’occasione dall’artista.
Nelle otto sale e nei due corridoi dell’Ex-Convento Frani orchestra in maniera corale molti dei soggetti presenti nella sua poetica – la figura umana, il paesaggio, la natura morta – e ne fa un mezzo potente attraverso il quale indagare ed interrogare l’indicibile Oltre. Il percorso, concepito come una sorta di partitura polifonica, è stato suddiviso in quattro “paesaggi” dagli evocativi titoli Di polvere e luce, Nello sguardo, Nel silenzio e Verso la gioia, dove lo spettatore è chiamato ad un ascolto attivo e contemplativo.
Le opere presenti in ogni singolo ambiente non si pongono mai in maniera isolata ed autonoma, ma sempre in relazione con tutte le altre in esposizione e, attraverso rimandi e risonanze, reiterazioni e assonanze, conducono lo sguardo – e il sentimento – del visitatore verso una riflessione personale e originale sulla vita, sull’essenza e sull’identità dell’uomo nel cosmo, argomento nodale della poetica di Frani.
La mostra, realizzata con il prezioso supporto di Gruppo Hera, è accompagnata da un catalogo che include le fotografie di tutte le opere esposte che sarà presentato sabato 5 ottobre alle ore 17.
Una sezione della mostra, intitolata Luminosa, a cura di Paola Feraiorni e Giovanni Gardini, è allestita negli spazi del Museo Diocesano di Faenza.
Verso la gioia
Paola Feraiorni e Ettore Frani
Verso la gioia rappresenta l’esito ultimo di una riflessione, urgente e strutturata, maturata negli ultimi tre anni di ricerca artistica. I contenuti di quanto si andava delineando sentivano la necessità di trovare sviluppo e dimora presso un luogo simbolico. Nel visitare le sale dell’ex Convento di San Francesco, in occasione di una nostra visita a Bagnacavallo, ci siamo resi conto di aver trovato quel luogo, dall’anima autentica. Da subito, nonostante la monumentalità del palazzo, le sale dell’ex convento hanno evocato in entrambi un senso di raccoglimento, e le pareti scrostate dal lavorio del tempo, memori di infinite orazioni, hanno suscitato quella pietas spontanea dove le opere avrebbero certamente incontrato armonie e dissonanze. Davide Caroli, nostro anfitrione, ha da subito accolto il progetto con entusiasmo, e ha collaborato assieme ai suoi stretti collaboratori alla più felice riuscita del nostro lavoro.
In questa ampia esposizione, oltre a riprendere in maniera più approfondita alcuni temi e soggetti emblematici, propri della ricerca pittorica, abbiamo voluto presentare per la prima volta il ciclo di disegni e le installazioni pittoriche che lasciano emergere nuovi e inaspettati approdi poetici. L’opera grafica, eseguita a grafite su diversi strati di carta sovrapposti, è emersa da quasi due anni, nella ricerca, con inaspettata urgenza. Qui il gesto e il pensiero si muovono tra inconsuete ma primigenie modalità espressive per tentare di dare voce e corpo, attraverso un minuzioso e infinito puntinato, al mistero insito nell’esistenza. Anche le cinque installazioni, dal titolo Offerta, nelle quali “irrompono” per la prima volta alcuni materiali atipici, sono il risultato di un’autentica esigenza che fa compiere al dipinto un movimento, una rivoluzione, per dare forma a un gesto ulteriore e meno mediato, sempre all’interno di un discorso che vede nella pittura il suo riferimento e che ragioni diversamente sui suoi propri mezzi, nonché sui propri limiti e desideri.
Il titolo della mostra, Verso la gioia, prende avvio da una serie di opere realizzate negli ultimi anni e mette a tema non tanto uno stato d’essere, quanto il senso di un procedere, di una tensione, di uno sguardo altro, atto a rivelare ciò che potrebbe essere indicata come una meta in cui disciogliere la sofferenza nella gioia e l’ombra stessa nella luce.
L’esposizione è concepita come una sorta di partitura polifonica e articolata secondo un ideale percorso, punteggiata in alcune sue pareti da sei interventi e riflessioni, che abbiamo voluto inserire come viatico e traccia per il visitatore.
Partendo dalla grande composizione su carta Di polvere e luce, che come una soglia invita lo spettatore a entrare nella mostra, si giunge, attraverso immagini abitate da dissoluzioni, ambiguità, resistenze e disseminazioni di luce, al polittico Verso la gioia che con l’opera Luminosa segna l’ipotetico approdo nel quale fa eco un rinnovato e ancor più consapevole passaggio: un’apertura e una rinascita oltre il mistero dell’esistenza.
Nelle sale dell’ex convento sono quindi radunati tutti i principali soggetti della poetica - la figura umana, il paesaggio, la natura morta - organizzati in maniera corale affinché possano divenire un tramite, ora più ampio e stratificato, attraverso il quale percepire l’Oltre indicibile.
Il percorso è suddiviso pertanto in quattro “sezioni/paesaggio” dai titoli: Di polvere e luce, Nello sguardo, Nel silenzio e Verso la gioia, ognuno caratterizzato da un registro e una voce propria, all’interno dei quali lo spettatore è chiamato a un ascolto al contempo attivo e contemplativo.
Le opere presenti in ogni singolo ambiente non si pongono dunque mai in maniera isolata e autonoma, ma sempre in relazione con le altre e, attraverso rimandi e risonanze, reiterazioni e assonanze, conducono lo sguardo - e il sentimento - del visitatore verso una riflessione personale e originale sull’essenza della vita e sull’identità dell’uomo nel cosmo.
Dalle rovine
Massimo Pulini
Comprese che l’impegno di modellare la materia incoerente e vertiginosa in cui si compongono i sogni è il più arduo che possa assumere un uomo… molto più arduo che tessere una corda di sabbia o monetare il vento senza volto.
Jorge Louis Borges, ne Le rovine circolari (1944), raccontò delle alterne peripezie nella messa in opera di un singolare processo creativo: la creta, della più impalpabile materia, era fornita da Shakespeare, lo scultore era taciturno, ma parlava l’idioma zend dei devoti a Zoroastro e dimostrava una disciplina d’Asia Maggiore, mentre l’opera che aveva concepito era la messa al mondo di un essere, sognato in ogni minimo dettaglio prima di farlo nascere. La nuova entità era una sorta di golem, non dissimile da quello che si incontra nella tradizione ebraica e il rito onirico si svolgeva nelle rovine combuste di un antico tempio del quale restavano frammenti di statue che non permettevano di desumere a quale divinità fossero dedicate.
Lo scrittore argentino dunque, nell’ideare il racconto, produsse una specie di eclettica tarsia, letteraria e teologica, dall’incastro mirabile e veggente.
Nell’accostarmi alle opere di Ettore Frani ho scelto per viatico il simbolico racconto perché mi sembra contenga tutti gli elementi presenti nell’immaginario dell’artista.
Forse Ettore svolge, nel suo proposito creativo, tutti i ruoli di quella intricata storia mistica. È l’asceta e lo scrittore, il sognato e il sognante, è la materia onirica e la polvere bruciata del carbone; si aggira tra le rovine di un tempio pittorico e le sue opere sembrano il resoconto temporale dei tentativi e delle rinunce, degli approdi e dei pentimenti che un pittore incontra lungo il proprio percorso iniziatico. Forse.
Parvenze e incompiutezze, cancellature e rivelazioni, atmosfere pulviscolari e cupe profondità si avvicendano nelle tabule rase che sono i suoi supporti ideali. La sua perenne ripartenza. Uno scavo dalla luce all’ombra e viceversa, e ritorno, e ricordo
.
Quel che emerge talvolta è un sacrario di identità, di volti inondati dalla luce, come fotografie che non hanno avuto il battesimo nella soluzione di acido acetico, borico e solfito di sodio. Destinate a sbiadire come caselle diafane nella lista dei martiri, o in quella degli incontri fugaci durante la nostra smemorata esistenza.
Ma non vi è mai annullamento, la luce si percepisce sempre come vocazione: una chiamata, ricevuta sia dall’uomo che dal mistico, dalla musa sognata così come dal sognatore, dal pittore e dalla modella.
Un donarsi gioioso del corpo alla luce e alla polvere, che altro non è che miscela di cellule morte e di polline, soglia misteriosa tra il finire e il rinascere del mondo.
Là dove anche ciò che si sta cancellando rimane, in quegli sdrucimenti della grafite che la gomma rilascia sul foglio. Tutto si tiene e pure quelle molliche grigie restano legate al disegno e sono la sua preziosa memoria. Quasi destinate ad attendere il giorno nel quale potranno ritornare al loro posto, a essere gesto entro il perimetro di un volto, se non ancora più a monte, nel ricongiungersi al pensiero che le ha generate.
Anche questi sono punti di contatto con le rovine circolari, là dove il concepimento dell’opera è atto mentale e fisico insieme, generato, non creato, della stessa sostanza del padre.
Sostanziare pensieri è il compito dell’artista e non può che compiersi per tentativi, fallimenti e invenzioni. Un processo cieco che vede luce solo nel farsi.
Per questo molte sue opere sembrano restituire la vista dopo uno stacco di buio, quasi fossero un mare che ci appare dopo aver immerso la testa nell’acqua, un albero illuminato dai fari di un’auto che passa, un fulmine notturno che ci rende straniero l’aspetto della nostra casa.
Eclissi e disturbi percettivi allora servono a mettere sotto pressione l’occhio, come la lingua lo è per la letteratura di Hemingway, sollecitata fino a uno schiacciamento che può anche sospenderne il flusso. Per sempre.
Nella più distensiva visione naturale, nel perditivo sguardo sull’orizzonte, ci appare un rettangolo d’abisso, che impone un asse verticale dall’insondabile scandaglio. È come una domanda sospesa sull’altrove che prima o poi dobbiamo farci. Forse.
Anche questo forse, che ricorre, viene dalla determinata e convincente incertezza del racconto borgesiano, che al pari di un abisso galleggiante, è sempre sull’orlo di ribaltare i ruoli e il senso apparente di quel che vediamo.
Allora l’artista che immagina una modella e lentamente la ricostruisce nelle sue singole parti … la quattordicesima notte sfiorò con l’indice l’arteria polmonare e poi tutto il cuore, di fuori e di dentro… si inoltra in un sentiero che lo porta ad identificarsi sempre di più con il soggetto, col suo destino di parvenza.
Questo è nel racconto, ultima analogia con la mostra labirintica che Ettore Frani ha concepito per le rovine del convento di San Francesco.
Sezioni e dissezioni
Ma quella dei corpi incamminati in una via lucis è solo l’ultima stazione del percorso.
Prendono per nome Favalene, quasi fossero un innesto tra faville e falene, alcuni disegni che avvicinandosi troppo alla luce volano nell’attimo della combustione, ascendono per essere divenuti più leggeri dell’aria. In verità alludono solamente al fuoco che arde la carta e i pensieri, ed è l’azione di cancellare, dunque di bruciare un segno, che diviene parte significante dell’opera. I trucioli di gomma anneriti dalla grafite, in un pensiero di estremo rispetto, l’autore li lascia là dove si trovano, sparsi sopra all’immagine di cui facevano parte, anziché spazzarli via col dorso della mano per sgomberarne il campo.
Le Schiume invece bisbigliano sottovoce, attraverso un’atmosfera rarefatta che resta sospesa tra una delicatissima icona e il suo disperdersi, in un compito di disseminazione. Opere che riducono all’ultima essenza la discrezione iconica, incrociando elettive e insospettabili affinità con le polveri depositate da Franco Pozzi, altro sensibile artista a me fratello. E non deve sorprendere che cercando il silenzio delle cose si rendano vicini i percorsi di differenti poetiche, sorgive scaturite da monti lontani tra loro che per ventura si trovano affiancate a valle.
Due cuscini, un lavandino, alcune sedie: le stazioni del vivere e del convivere. Litanie di un coro recitativo che sta, tra un’aria e l’altra, entro un componimento esistenziale.
Altrove, nel secondo movimento chiamato Nello sguardo gli oggetti acquisiscono un altro peso e abitano lo studio da presenze semplici e funzionali - uno straccio, un barattolo, dei pennelli - che interrogano il pittore proprio a partire dalla loro afasia. Compagni che assistono il fare, dunque sanno più di chiunque altro, eppure trattengono il loro giudizio alla maniera di oracoli reticenti.
Fu André Gide a usare per la prima volta l’espressione mise en abyme (o mise en abîme), là dove la linea del racconto viene bruscamente spezzata da uno sprofondamento di senso, per mostrare il nocciolo duro del frutto significante, il cuore più interno dell’opera. Così, sopra ad un esteso paesaggio marino che chiama l’occhio all’orizzonte, l’apparizione di un dipinto nero appeso a un muro che cola il suo colore d’ombra sul mare, equivale a un trauma percettivo, come si trattasse di un flash back o di un disturbo da persistenza cinetica.
Allestisce invece una tautologia, una lucida analisi del processo creativo condotta con gli stessi strumenti che lo generano. Mentre dipinge un paesaggio il pittore non si trova in riva al mare, ma nel proprio laboratorio, in mezzo a contenitori di colore, i cavalletti e gli altri quadri in attesa del pennello. Questo è lo scenario agognato, il Colloquium tra le opere in transito e le presenze stanti che d’incanto si mimetizzano in un’Elegia, quella forma retorica del comporre indirizzata a ragioni di confessione autobiografica.
Il terzo movimento si colloca Nel silenzio e parla di leve, di monti che gravano sui pennelli e di offerte. Torna la coperta del tempo e il lume ma in effetto notte, nello specchio negativo di quel che ha aperto la mostra. Quando attorno si fa buio la stessa polvere si tramuta in luce.
Infine, nel quarto e ultimo paesaggio e quasi costituissero un riavvolgimento esistenziale, affiorano alla vista e sottoposti a fiammate di magnesio, la Pupilla, la Radura, la Semina, il Desiderante, il Polline, l’Origine, l’Altro sguardo, il Dono, la Silenziosa, la Piccola Apocalisse, fanno corteo nell’incamminarsi tutti in direzione della meta.
In questo ‘finale a raccolta’ trova motivo la disposizione sequenziale delle opere, che viene dall’arte del cinema, della musica, del libro e che quasi mai appartiene alle formule della pittura.
Allora, come nell’epilogo di una sinfonia, tutti i temi si riuniscono in un crescendo orchestrale, le armonie incontrano i cori, i passaggi che erano rapidi e sincopati si rallentano lasciando spazio a dissolvenze incrociate, a incisi e bordoni che servono appunto quel paesaggio sonoro, scritto, visivo, che come un titolo di coda si sfuma verso un mistero che l’autore chiama gioia.
Oltre il visibile
Davide Caroli
Direttore Museo Civico delle Cappuccine
"Frani parla attraverso i dipinti solleticando la contemplazione di visioni che non presentano l’ostentazione della bellezza, vuota e
fragile, frenata da parametri e criteri estetici, oggi tanto ricercati, ma accede ad un visibile che ha un senso alto di moralità e rispetto per il profondo valore del vedere e del capire il messaggio potente dell’arte. Questa bellezza si concede e vale ora sempre, perché ritrova forza e verità nell’emozione che sa suscitare. Svincolata dal tempo fugace delle mode.”
Era il 2012 quando Matteo Galbiati concludeva così le sue riflessioni nel testo che accompagnava la mostra personale di Ettore Frani al MAR di Ravenna. Selezionato allora come “giovane” artista under 40 colpiva già per la serietà, la dedizione e la profondità della sua proposta artistica, esito di una ricerca fortemente connotata da una intima ricerca personale.
In quegli anni mi capitò di conoscere lui e il suo lavoro, e la sensazione che ebbi era che fossero uno lo specchio dell’altro: non c’era maniera nella pittura e non c’era costruzione nella persona, nell’offrirsi tramite i suoi lavori.
Oggi, a distanza di ormai 12 anni, nel pieno di una storia professionale ricca di gratificazioni, Ettore appare maturato nel segno, ma ancora portatore di quelle suggestioni che rendono così riconoscibili i suoi dipinti.
Fin dagli esordi il suo percorso si è mosso ondeggiando con circospezione tra la figura umana, i paesaggi e le nature morte, esibendo in ognuno di questi lo stesso
magnetico punto di fuga che lo rende così personale e affascinante.
Non vi è differenza per lui nella scelta di un “pretesto” per raccontare quello che gli sta a cuore e quello che emerge dalle sue domande: l’immanenza di un mistero, una grande esigenza di senso che
sembra sottendere a tutte le cose, siano esse oggetti, luoghi o persone.
Un mistero che sembra rendersi presente, percepibile, senza però svelare fino in fondo la sua natura. Se ne percepisce la tensione e la densità sostando davanti ai suoi paesaggi, deserti e disabitati, nei quali si è costretti a fronteggiare l’invito a proseguire su strade che sembrano portare ad un altrove indefinito e sconosciuto. Oppure nel dettaglio fisico degli oggetti che nel particolare raccontano la loro unicità irripetibile, oppure ancora nelle figure che nel loro silenzio sembrano lanciare occhiate che indagano la nostra anima, o in quelle che al contrario ci voltano le spalle per concentrare il loro sguardo verso un orizzonte a noi ancora incognito.
Il Dato, per non dire il Creato, è lì davanti per rendersi luogo del confronto con noi stessi e con la nostra stessa profondità; la vertigine si apre così di fronte ai nostri occhi, grazie a queste tavole, scure ma non buie, sulle quali appaiono illuminati da una luce accecante gli oggetti, apparentemente effimeri, che diventano così soggetti in un gioco di inconsci rimandi, in una pittura in cui si alternano il dettaglio quasi fotografico e immagini fortemente sfuocate, a raccontarci come non sia sempre possibile avere i sensi e gli occhi attenti a percepire come e dove umano e divino si tocchino e si congiungano.
Nero e luce, mistero e rivelazione, trascendente e immanente, materiale e spirituale: elementi contraddittori che toccandosi permettono di acquisire nuovi significati l’uno all’altro, in un dialogo continuo e ancora apparentemente irrisolto per l’artista, che prosegue nella sua ricerca proponendo nuove sfide al nostro percepirci.
Così il lavoro si arricchisce di simboli e immagini inedite, e anche la tecnica si modella per rendere più sperimentabile ai nostri occhi questa evoluzione. Lo si può vedere nei suoi più recenti disegni sui quali con perizia e dedizione lavora sovrapponendo strati di carta e grafite, al fine di creare delle immagini che sono apparizioni e nel contempo sparizioni, per sottolineare l’apparente vacuità delle figure ma per rappresentarne in realtà la vera essenza, in quello che potrebbe essere inteso come il soffio dell’anima.
Colpisce poi come oggi si rinnovino opere che hanno già un vissuto, rinascendo e riprendendo vigore alla luce di nuovi pensieri e approfondimenti.
E così le tavole vengono nuovamente osservate, pensate e d’improvviso ferite dalla mano dell’artista che le scalfisce e le scolpisce, così come la vita tocca e rimodella le forme lasciandovi segni
indelebili che rendono unici e facendo emergere dal fondo la vera sostanza di ciò che costituisce.
In questo confronto di presenza e assenza le immagini sorgono in un assordante silenzio, quasi ovattato, che ci costringe a confrontarci con noi stessi: così come l’artista al momento della creazione, anche noi siamo invitati a riflettere e rifletterci in questi soggetti.
Ci aiuta in questa occasione il contesto in cui sono esposte le opere, gli spazi dell’ex Convento di San Francesco, nel quale le sale e i corridoi con la loro apparente decadenza, recepiscono il pensiero artistico e lo accolgono custodendolo e assolvendo al compito di luogo di riflessione e meditazione per cui era stato concepito.
Colpisce ritrovare in alcuni degli ultimi lavori di Frani un richiamo a certe suggestioni
surrealiste: la sua Via lucis origine ad esempio sembra ricordare in prima battuta un buco nero ma anche un occhio, uno dei soggetti più importanti nella
poetica di Breton e dei suoi accoliti.
Il poeta francese affidava infatti all’organo della vista un’importanza decisiva, non solo per la percezione del reale, ma anche per uno sguardo conturbante su quello che egli chiama “l’altrove”. E
così anche Magritte in una sua celebre opera raffigura un grande occhio nel quale la retina diventa come uno specchio che riflette il cielo e la pupilla un cerchio nero: secondo il detto “gli occhi
sono lo specchio dell’anima”, l’occhio diviene il punto di incontro tra la realtà esterna e quella interiore, facendo cadere la barriera tra le due dimensioni.
Un lavoro, quello di Frani, che appare quindi quanto mai in linea con la proposta espositiva delle nostre istituzioni culturali per questo 2024, proposta incentrata sul tema del paesaggio umano, raccontato qui dal versante più intimo e personale possibile che ci offre la possibilità di arrivare a parlare dell’uomo, dei suoi risvolti più profondi, passando attraverso tutta la natura ed il cosmo e arrivando a concretizzarsi in un punto fisico sperimentabile.
Una via verso la gioia, quindi, un desiderio e un auspicio, che permea di positività tutto il percorso artistico di Frani: una riflessione personale e originale sull’essenza dell’essere, una positività non teorica ma che scaturisce dalla propria esperienza, dalle tante domande che si condensano nelle sue opere, e dal rapporto umano con chi quel lavoro lo custodisce e lo cura, come un compito donato e da condividere.